"Il mutamento nelle abitudini dei consumatori più giovani è la minaccia più consistente e rilevante nei confronti della sport industry.”
È questo il preoccupante verdetto pronunciato da uno studio condotto da PwC nel 2017 e intitolato “Sports: the most disrupted of all industries?”, che affonda le proprie convinzioni nell’innegabile calo di appeal dei grandi eventi sportivi, da sempre traino commerciale del settore. Due esempi? Il -17% di spettatori per le trasmissioni in prima serata delle Olimpiadi di Rio 2016 rispetto a Londra 2012; o il -14% di spettatori live registrato in un anno dalla Premier League inglese.
Questo studio, parallelamente ad alcune preoccupazioni, racconta anche di come le diverse componenti del comparto stiano reagendo a questa tendenza, sperimentando nuove e diverse forme di intrattenimento, pensate e confezionate su misura per arrivare al pubblico che tutti vorrebbero raggiungere, ma che pochi, per ora, riescono a catturare.
Prendete l’ultima grande frontiera dell’intrattenimento tecnologico, la realtà virtuale: sei tra i più importanti tornei internazionali di golf, tra il 2017 e il 2018, sono trasmessi a 360 gradi, sia mediante l’uso degli appositi visori, che utilizzando app mobile come Periscope che ne consentano la piena godibilità. O ancora, l’imperioso aumento del numero di eventi sportivi i cui diritti sono stati assegnati a piattaforme digitali quali la neonata Facebook Watch. A investire sull’ultima creatura di Mark Zuckerberg è stata addirittura la lega di football americano NFL — la stessa che settimanalmente ha trasmesso una partita in diretta su Prime Video — e che periodicamente distribuirà contenuti video esclusivi su scala globale.
Quel che è certo è che la fruizione dell’evento sportivo così come era concepita fino a pochi anni fa, non esiste più: è appurato che la commistione con l’entertainment ha dato vita ad un prodotto nuovo, ibrido, dove le discipline si fondono con il coinvolgimento del pubblico e dove entrambi sono in egual misura propedeutici al raggiungimento degli obiettivi.
Un prodotto così innovativo in termini di audience e commerciali, che in un brevissimo lasso di tempo è stato letteralmente in grado di avere un impatto su tutto: sportswear incluso.
Un recente esempio di questo connubio vincente applicato alle divise da gioco viene proprio da uno dei brand leader del settore: Nike.
È dello scorso settembre, infatti, il lancio di una tecnologia innovativa, che abbina l’applicazione mobile Nike Connect — lanciata nello stesso giorno e disponibile gratuitamente — con una delle nuove linee di prodotti che il marchio statunitense ha iniziato a produrre, in virtù del nuovo contratto di sponsorizzazione che lo lega al campionato professionistico di basket nordamericano, la NBA.
Accompagnata da una campagna pubblicitaria che ha letteralmente invaso ogni tipo di piattaforma digitale, la tecnologia consente, all’acquisto un prodotto, di avvicinare lo smartphone all’etichetta e sbloccare una serie di contenuti multimediali esclusivi: highlights delle partite e interviste, oltre a playlist dedicate su Spotify, rewards del videogioco NBA 2K18, offerte di prodotto e biglietti e molto altro.
Tutto strettamente legato allo specifico prodotto acquistato: alla canotta di Kevin Durant, ad esempio, corrisponderanno contenuti legati a Kevin Durant: video, statistiche, aneddoti, curiosità. E così via per tutti i giocatori e tutte le squadre.
“Sappiamo di poter fare prodotti fantastici,” ha dichiarato Stefan Olander, Vice-Presidente della digital innovation di Nike. “Ma volevamo fare di più, andare oltre. Conosciamo il tipo di passione che lega i nostri consumatori ai nostri giocatori. E se potessimo dire a LeBron quanti dei suoi fan si sono connessi alla sua canotta a Pechino? Quante possibilità si potrebbero aprire?”
Pur avendo goduto della cassa di risonanza più grande, Nike è solo l’ultimo di una lunga lista di brand dello sportswear che hanno portato ad un livello superiore, quasi interattivo, il rapporto tra il proprio prodotto e il consumatore.
Già da qualche anno diverse società sportive, in accordo con i relativi sponsor tecnici, hanno iniziato a offrire ai propri tifosi opportunità esclusive: disegnare la terza divisa delle squadre, o votare le varie proposte sul sito o sui canali social dei club. Una strada semplice e intelligente per coinvolgere i fan in un processo che da un lato può generare contenuti e interazioni, e dall’altro permette di collezionare importanti quantità di dati, leve strategiche indispensabili per qualsiasi reparto commerciale o marketing.
Lo ha fatto Adidas con squadre di prima piano come Milan, Real Madrid e Manchester United, ma lo ha fatto anche il brand italiano Erreà con il Ronchdale e altre squadre di serie minori, dove i budget sono ridotti all’osso e il coinvolgimento dei tifosi è essenziale.
Altri esempi stravaganti? La scorsa stagione la Sampdoria ha messo in vendita un numero limitato di maglie da gioco in grado di riprodurre l’inno della squadra mediante un chip inserito sotto lo stemma societario. O il Leganes, che lo scorso anno ha intriso le fibre delle proprie divise con un’essenza al cetriolo, per richiamare le origini contadine della città situata alla periferia di Madrid.
Il progresso delle tecnologie legate allo sportainment non conosce soluzione di continuità e ha vincolato tutte le parti coinvolte a restare al passo: essere fantasiosi, reinventarsi, prendersi qualche rischio. Fallire, anche, se necessario.
L’importante è non restare fermi, mai. Non illudersi che aver azzeccato l’ultima buona idea sia sufficiente. Chi ha saputo intraprendere questo percorso virtuoso, sta trasformando quella minaccia di cui parlava PwC in un’opportunità, sia economica che di popolarità. Chi invece è rimasto fermo, ora deve rincorrere un pubblico sempre più esigente e frammentato. Val la pena mettersi in gioco e provarci. Senza paura.