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Nike, Adidas, Under Armour: strategie nello sportswear

29 March 2017
adidas

Nel 1962, Phil Knight partì dall’Oregon per andare in Giappone a convincere i produttori di sneaker locali ad esportare i propri prodotti nel mercato USA. Sebbene, come racconta nelle pagine della sua stupenda biografia “Shoe Dog”, fosse convintissimo che la sua Crazy Idea potesse avere successo, mai si sarebbe aspettato che Nike, la sua creatura, sarebbe diventata un colosso capace di fatturare oltre 30 miliardi di dollari all’anno. L’azienda di Portland, che fa del “Just do it” il proprio motore immobile, è ampiamente la leader del settore sportswear, grazie alla capacità di creare un’identità di brand riconoscibile in tutto il mondo.

Oggi, però, ci sono due realtà che stanno sfidando Nike con veemente convinzione. Una è adidas, che dal suo headquarter di Herzogenaurach in Germania, ha rivitalizzato le proprie strategie sia sul lato prodotto che su quello sponsorship, dando nuovo impulso ad un’azienda da 19 milioni di dollari (dati 2015).

L’altra ha sede a Baltimora ed è Under Armour, la cui anima è perfettamente interpretata dal suo Founder e CEO Kevin Plank, un imprenditore spavaldo, con idee chiare e strategie ambiziose, e con una sua Crazy Idea: quella di spodestare Nike.

Nonostante UA sia ben lontana dai numeri delle due rivali (ha chiuso il 2015 con 5 miliardi di dollari di ricavi), è stata capace di superare nel 2015 adidas come secondo brand nel mercato USA, in larga parte per le forti radici nel football americano e nello sport collegiale, oltre all’esplosione della stella di Stephen Curry, guardia dei Golden State Warriors capace di assicurarsi due titoli di MVP consecutivi nella NBA.

Proprio la star dei Warriors esemplifica la chiave di volta nell’eterna competizione tra le Big Three: il destino di queste multinazionali, molto spesso, è appeso al minimo dettaglio, che non sempre è nella sfera di controlla dell’azienda. Quando il team di sport marketing di Nike irritò Dell Curry, ad esempio, inserendo un’immagine di Kevin Durant nella presentazione destinata ad assicurarsi la sponsorizzazione del figlio Stephen, si è aperta una strada di successo per Under Armour nel basket, fino a quel momento piuttosto marginale nel business di UA. Una goccia nell’oceano, certo, ma in quel momento nessuno si sarebbe atteso che Curry diventasse il primo MVP unanime della storia della NBA.

I diversi piani di marketing

Ci sono alcuni punti da evidenziare nelle strategie dei Big Three in questo momento storico. Nike ha un grande obiettivo davanti, che è quello di raggiungere i 50 miliardi di dollari di fatturato annuo: come ci può arrivare? Oltre alle strategie di sport marketing che andremo a vedere in seguito, lo swoosh sta proponendo un’innovazione dietro l’altra. Pensiamo alle scarpe Nike HyperAdapt, prima scarpa con la tecnologia self-lacing, o al nuovo incredibile flagship store a Soho (New York) sviluppato su più piani, o ancora all’avanguardia nello sviluppo di campagne digital come la serie “Unlimited”.

adidas ha avuto un 2016 eccezionale (è stata eletta da Yahoo Finance “Sport business of the year”) dove è stata in grado di riconquistare il secondo posto nel mercato USA (passando da un market share di 4.3% al 7.2%) ai danni di Under Armour, ottenendo significativi numeri di crescita (+20% nel terzo trimestre). La strategia dei tre pilastri introdotta nel marzo 2015 sta pagando ingenti dividendi: il ripensamento del modello di business model incentrato sul concetto di rapidità, unito ad un rapporto più stretto con le celebrities (Kanye West e Pharrell Williams su tutti) ed un focus sulle sei città (New York, Shanghai, Paris, Tokyo, Los Angeles e Londra) più influenti sui fashion trend si sono dimostrate idee di successo.

Under Armour ha investito tantissimo (circa un miliardo di dollari, di cui 710 milioni solo per acquistare tre app tra cui MyFitnessPal) nel campo dei Big Data, per realizzare prodotti iper-connessi ed in grado di garantire agli atleti il tracciamento totale delle proprie prestazioni. Non è stato un 2016 così entusiasmante per Plank, sia per la chiusura di retailer importanti come Sports Authority che per una difficoltà nel commercializzare scarpe performance (le “Curry 3”, ad esempio, non sono andate affatto bene). I piani di crescita restano, anche in Europa: l’apertura di un’imponente base continentale in Olanda e il passaggio al gruppo Oberalp per la distribuzione in Italia ne sono una testimonianza.

Gli approcci alla sponsorship

L’azienda che più ha trasformato il proprio approccio alle sponsorship è adidas. Conosciuta da sempre come il brand “True to sports”, più incline ad associarsi a squadre ed eventi piuttosto che ad atleti, l’azienda tedesca ha dismesso accordi rilevanti con properties come il Chelsea e la NBA per spostare risorse e investimenti su campioni giovani e promettenti. Anche la partnership con la IAAF, federazione internazionale di atletica, è stata dismessa con tre anni di anticipo per gli scandali legati al doping, permettendo ad Asics di subentrare ad adidas come sponsor tecnico.

Nike ha rinnovato accordi mostruosi con il Barcellona (155 milioni di € l’anno, superando il record del Manchester United con adidas) e con il Chelsea (60 milioni di sterline), e si dice che sia pronta a subentrare ad Under Armour come partner del Tottenham, rafforzando ulteriormente la propria presenza in Premier League e nel calcio. C’è curiosità per la nuova partnership con la NBA dall’anno prossimo, che vedrà lo swoosh su 29 delle 30 divise delle franchigie (Charlotte avrà il logo del brand Jordan, visto che MJ ne è il proprietario).

La leggera presenza di Under Armour nel calcio verrà ancora più indebolita dalla perdita del Tottenham, come detto. L’accordo più significativo siglato dal brand di Baltimora nel 2016 è quello con UCLA (University of California Los Angeles), ateneo tra i più gloriosi d’America per heritage sportivo, che dal prossimo luglio vestirà Under Armour, chiudendo la partnership più costosa della storia dello sport collegiale (280 milioni di dollari, 15 anni).

Gli endorsement di atleti

Per Nike è stato l’anno degli accordi a vita, dato che LeBron James e Cristiano Ronaldo, i due atleti più iconici del mondo, hanno siglato contratti da un miliardo di dollari che renderanno la loro collaborazione con Portland sempre più forte, anche oltre il loro ritiro. Da osservare con attenzione la nuova partnership con Jason Day, golfista numero 1 del ranking PGA, che testimonia l’interesse di Nike a proseguire un percorso in questo sport nonostante il disinvestimento nella produzione di attrezzature, come deciso anche da adidas nell’ultimo anno.

Paul Pogba nel calcio e James Harden nel basket sono i simboli del nuovo corso adidas: fenomeni in campo e trend-setter fuori, con cui il brand delle tre strisce produce contenuti innovativi soprattutto a livello digital per avvicinarsi ad un target più giovane, che storicamente è stato più affezionato a Nike. Specialmente nel basket c’è stato un sostanzioso investimento sugli atleti, con la firma di stelle come Porzingis e di giovani promesse come Ingram, Murray e anche l’italiana Cecilia Zandalasini.

Per Under Armour è stato un 2016 in cui molto è stato puntato sui campioni olimpici Michael Phelps, Andy Murray e Simone Biles, che hanno ottenuto un’eco mediatica fortissima per le loro performance a Rio. In particolare Phelps è stato protagonista di campagne di enorme successo, tra cui lo stupendo video di avvicinamento ai Giochi che ha vinto il premio come “Best Ad of 2016” dalla prestigiosa rivista AdWeek. L’eccentricità ed il talento delle star NFL come Cam Newton e Julio Jones hanno rafforzato il brand UA nel football americano, mentre la sconfitta di Golden State con Cleveland e la mancata esplosione di Memphis Depay hanno rallentato la crescita nel basket e nel calcio.

Il terreno delle sponsorizzazioni con atleti è sempre complesso, perché contano moltissimo i rapporti personali e le persone che gravitano intorno ai campioni. Pensiamo ad esempio a Ben Simmons, astro nascente della NBA, che nonostante avesse un’offerta più allettante da adidas, ha firmato con Nike anche grazie alle “pressioni” del potentissimo agente Rich Paul, la cui scuderia è capitanata da LeBron James.

Sonny Vaccaro è stato il vero pioniere dello sports marketing. Negli anni ’70 capì che lo sport collegiale era fondamentale per la crescita dei brand, e convinse Nike a firmare accordi con gli allenatori degli atenei più conosciuti, retribuendoli con forniture di scarpe per gli atleti (erano proibiti gli accordi commerciali tra brand e università). Con questa idea geniale si accreditò moltissimo nel mondo del basket e soprattutto con Phil Knight. Quando nel 1984 la Nike si avvicinò al miliardo di dollari di ricavi, proprio il fondatore convocò Vaccaro per richiedere una consulenza: meglio investire 50.000 dollari su 10 giocatori o 500.000 su un unico campione? Era l’anno in cui Jordan, che preferiva adidas ai tempi, usciva da North Carolina per entrare in NBA. Vaccaro consigliò a Knight di fare la big bet su MJ, sicuro che sarebbe diventato una leggenda del basket.

Per un uomo che è volato in Giappone, meno di vent’anni dopo Hiroshima e Nagasaki, per importare scarpe da ginnastica in America, scommettere su Jordan è stato semplice. Quella scelta ha cambiato per sempre il destino di Knight e della sua azienda, ed ha influenzato le scelte delle rivali che cercano con sempre maggior insistenza il testimonial che possa ispirare in campo e fuori dal campo.